di Domenico Di Vita - Vicecomandante della Polizia locale di Battipaglia
Il ripensamento degli strumenti finalizzati alla tutela della sicurezza urbana che ha interessato le normative degli ultimi anni ha riguardato anche la partecipazione dei privati (ANTONELLI V. La sicurezza in città ovvero l’iperbole della sicurezza urbana). La sede privilegiata per valorizzare il contributo dei privati è individuata nei “patti per la sicurezza urbana”.
Si prevede in tal senso che la sottoscrizione di tali patti debba tener conto anche di eventuali indicazioni od osservazioni acquisite dalle associazioni di categoria comparativamente più rappresentative, ribadendo in tal modo che la sottoscrizione del patto rimane riservata alle istituzioni pubbliche statali e locali.
Quando sono coinvolti i privati?
Diversi sono gli ambiti in cui possono essere coinvolti i privati. In particolare, per la realizzazione dei servizi e degli interventi di prossimità volti a prevenire e contrastare i fenomeni di criminalità diffusa e predatoria, è previsto il coinvolgimento, mediante appositi accordi, «delle reti territoriali di volontari per la tutela e la salvaguardia dell’arredo urbano, delle aree verdi e dei parchi cittadini». La disposizione, alquanto generica, è destinata ad un’attuazione non scevra da incertezza e confusione. Incerti appaiono la natura dell’accordo, i soggetti sottoscrittori, l’ambito di intervento, le misure programmabili.
Chi può firmarli?
Si tratta di accordi accessori dei patti per la sicurezza o di accordi attuativi autonomi? Devono essere sottoscritti con il Prefetto e il Sindaco o solo con quest’ultimo? Cosa si intende per «reti territoriali di volontari per la tutela e la salvaguardia dell’arredo urbano,delle aree verdi e dei parchi cittadini»? Quali impegni possono essere assunti dai privati? Ad una prima lettura, gli accordi sembrano avere natura prettamente attuativa ed in quanto tali sottoscrivibili dal Sindaco e dai privati senza bisogno dell’adesione del Prefetto.
Quali “volontari”?
La generica nozione di “rete territoriale di volontari” consente di ricomprendere tra i soggetti privati legittimati le multiformi realtà associative composte da volontari, escludendo, dunque, la possibilità di una collaborazione unipersonale ed occasionale e delle aggregazioni con finalità diverse dal volontariato. La genericità e l’atecnicismo della nozione potrebbero, invece, giustificare l’inclusione anche delle esperienze aggregative “informali” e/o “di fatto”. Un ulteriore limite è dato dalla finalità associativa da perseguire, che deve essere espressa nell’atto costitutivo o nel patto associativo: la tutela e la salvaguardia dell’arredo urbano, delle aree verdi e dei parchi cittadini. Non, dunque qualsiasi aggregazione di volontari.
Per quali finalità?
Per quanto riguarda il possibile oggetto dell’accordo, le attività dei privati dovrebbero concorrere alla prevenzione e al contrasto dei fenomeni di criminalità diffusa e predatoria, attraverso servizi e interventi di prossimità. Più che a un coinvolgimento diretto dei volontari nell’attività di segnalazione alle forze di polizia statali o locali degli eventi che possono arrecare danno alla sicurezza urbana (attività pur sempre riservata alle associazioni di osservatori volontari, le cd. ronde, disciplinate dal comma 41 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 e non interessate dalla normativa in esame), il decreto legge sembra rinviare alle attività di cura e gestione condivisa degli spazi urbani, ed in particolare delle aree verdi e dei parchi cittadini. In quest’ottica la manutenzione e la rigenerazione dei suddetti spazi dovrebbero contribuire a prevenire, dissuadere e ridurre i fenomeni causativi della criminalità.
Quali associazioni?
In secondo luogo i privati sono chiamati a collaborare alla «promozione dell’inclusione, della protezione e della solidarietà sociale mediante azioni e progetti per l’eliminazione di fattori di marginalità». Il decreto legge in tal caso prevede espressamente la collaborazione con enti o associazioni operanti nel “privato sociale”. Anche in questo caso la nozione presupposta di “privato sociale” risulta alquanto generica e priva di un riscontro normativo. A questa lacuna si può ovviare richiamando la nuova definizione di “terzo settore” introdotta dalla legge 6 giugno 2016, n. 106, contenente “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”, secondo la quale «per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi», con esclusione delle formazioni e delle associazioni politiche, dei sindacati, delle associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche (definizione riproposta dall’art. 4 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117). Tuttavia, la differente espressione linguistica utilizzata potrebbe far propendere per una portata più ampia della nozione di “privato sociale” rispetto a quella codificata di “terzo settore”, con la conseguente possibilità di coinvolgere organismi privati non strettamente riconducibili alle categorie di enti individuati dalla nuova normativa statale sul terzo settore.
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