MILANO - Con una sentenza innovativa, La Suprema Corte ripropone il tema, attuale e sempre piuttosto controverso, della videosorveglianza sul posto di lavoro.
La recentissima sentenza 50919, del 17 dicembre 2019 della Cassazione, indica infatti che il datore rischia un’ammenda onerosa qualora installi un sistema di videosorveglianza in un luogo di lavoro senza l’accordo sindacale, anche se i lavoratori hanno in precedenza accordato il permesso ad essere ripresi.
Con questa sentenza, la Suprema corte ha quindi respinto il ricorso di un imprenditore che aveva installato telecamere per il controllo a distanza del personale. Il ricorso della difesa si è rivelato inutile: il legale aveva sostenuto che la telecamera era stata installata solo dopo il consenso scritto degli impiegati, ma la tesi non è stata accolta dai Supremi giudici, che hanno risolto la questione attenendosi allo Statuto dei lavoratori, in particolare all’articolo 4.
Tale norma inibisce, in assenza dello svolgimento delle preordinate intese con le rappresentanze dei lavoratori, ovvero in assenza di una specifica autorizzazione da parte dell’Ispettorato del lavoro, l'istallazione di dispositivi di videsorveglianza a distanza.
Risulta irrilevante il fatto che le immagini riprese con tali strumenti siano nella disponibilità del datore di lavoro. Secondo il parere della Cassazione, "il consenso o l’acquiescenza che il lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l’interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporre, resta fuori dalla teoria del consenso dell’avente diritto. Non è, nel caso descritto, la condotta del lavoratore riconducibile al paradigma generale dell’esercizio di un diritto, trattandosi della disposizione di una posizione soggettiva, a lui non spettante in termini di esclusività".
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